“La Déesse Particulière”
2012
Testo di PAOLO BARBARO
Quando viene presentata al Salone dell’auto di Parigi, nel 1955, la Citroën DS riscuote, oltre a un numero impressionante di ordinazioni, una recensione d’eccezione: un articolo (La Nouvelle Citroen) di Roland Barthes, che finirà poi nella raccolta Mitologies.
Tra le mitologie anni Cinquanta analizzate da Barthes in quei saggi, la Déesse è sicuramente uno dei più longevi. Forse non è un caso che tra i soprannomi italiani più diffusi per questo oggetto straordinario vi sia quello acquatico, di -squalo- : uno degli animali che meno si sono evoluti dal pleistocene, nato di forma già perfetta, nessun bisogno di cambiare per milioni di anni. Barthes scrive della continuità delle superfici, del modo di concepire le giunture tra gli organi, tra i materiali. Siamo lontani dalla futurista e maschilista -alcova d’acciaio- di Marinetti. Siamo di fronte (e dentro, i più fortunati) a una -macchina morbida- proprio del tipo descritto da William Bourroughs, patriarca della Beat Generation. Altra nozione cara a Bourroughs è quella di Sex appeal dell’inorganico: ma è termine ampiamente usato da Walter Benjamin in I passaggi di Parigi a proposito della moda, della seduzione della merce che insiste in un continuo scambio tra forma e materia, transizioni tra naturale e artificiale.
In questi anni Cinquanta la DS nasce come oggetto impressionante per la quantità di soluzioni tecniche inedite ma anche per la trasformazione del rapporto tra forma e funzione: il design non è né rivestimento decorativo per nascondere una meccanica funzionale ma scarsamente attraente e nemmeno sottolineatura della bellezza della funzione: tant’è vero che il motore viene pensato dopo la carrozzeria che è la più bella delle sculture di Flaminio Bertoni (il progettista fu anche scultore un po’ accademico, e con la Citroën è come se da Bistolfi Bertoni di colpo diventasse Brancusi) e porta tutto il senso dell’oggetto sulla sua superficie omogenea, senza soluzioni di continuità e di qualità tra esterno ed interno.
Ed ecco le fotografie: il corpo metallico, di sicura fotogenia, di grande richiamo per la superficie inorganica ma sensibile e sensuale della fotografia. Facile perdersi, dopo aver assolto gli obblighi di descrizione della -figura interae delle parti eminenti, nei dettagli. Proprio come si farebbe con una scultura astratta ma evocativa, particolarmente sensibile alla luce e propensa alla trasfigurazione dei materiali nella scrittura per sottilissimi grigi della fotografia in bianco e nero. Non è la prima volta che Di Liborio vi si confronta; lo aveva già fatto nel 2002 risolvendo il tema per via di astrazione, riducendo le curve continue, le commessure -di cui rileva, con Barthes, la specifica importanza-, il gioco di riflessi, in tavole di evidenza iperreale, di dettaglio tagliente. A distanza di anni ecco una scrittura diversa, dal secco ritaglio passiamo alla morbidezza del fuoco che incide selettivamente su dettagli, come a imprimere allo sguardo il senso tattile di una carezza sulla superficie inanimata. Si inizia con il nome del carrozziere Henri Chapron a caratteri cromati, sottolineati dalla modanatura modulata: nessuna verga standard, nessuna squadratura o tratto rettilineo, nulla che sembri uscire da un’altra macchina su questo guscio. Ogni dettaglio è un microcosmo di materiali, un’architettura di scala indefinita che presto allude ad altro. Sfugge allo standard in un continuo gioco di trasformazione tra minerale, vegetale, animale anche fantastico. Un fanalino, una presa d’aria, una maniglia, la cornice di un finestrino, sembrano pretesto per evocare il carapace di un coleottero, il braccio o una curva del seducente cyborg di Metropolis (Lang, 1927), poco prima di essere satanico Doppelganger della buona e un po’ melensa Maria. La transizione tra regni animali distanti, come nelle stampe di Grandville (ancora Benjamin ce lo indica) è incoraggiata dall’affondare nel buio e nel fuori fuoco.
La forza evocativa delle immagini di Di Liborio non teme i dettagli che mostrano il tempo, la minima corrosione, la pelle (vera ma sembra finta ma è vera finzione di un organismo vivente) leggermente intaccata dagli anni. Il piantone dello sterzo si congiunge con il cruscotto entrandovi morbidamente, con tranquilla allusione sessuale. Il mito, si sa, è una narrazione che procede per via principalmente orale, di racconto in racconto, resta uguale a se stesso (si distilla nella sua essenza) passando attraverso le sue infinite variazioni. La fotografia di Di Liborio amplifica i mito di questa forma spostandone le variazioni visive nel territorio della leggenda, della favola.
Lettera di presentazione
Con grande piacere e soddisfazione porgo alla vostra attenzione il libro fotografico:
“La Déesse Particulière”
L’Incontro Internazionale giunto alla sua quindicesima edizione è stato scandito negli anni in modo perfetto con tre pubblicazioni indirizzate a questo fantastico modello. (Al quinto anno, al decimo e al quindicesimo).
Per la terza volta ho creduto nell’arte fotografica del fotografo e amico Cesare Di Liborio.
Una serie di fotografie rimangono per sempre, rimangono nel futuro, e poi la grande forza e il fascino dello scatto in bianco e nero; è indissolubile nel tempo.
Tre modi diversi di raccontare una Dea, tre volumi da conservare gelosamente nella libreria del vero appassionato (e non) di questa opera d’arte della produzione industriale. Perché quando il possessore della DS riapre questi libri (anche qualora non lo sia più); nasce o rinasce una sensazione di ammirazione per questo veicolo e in più i ricordi ripercorrono viaggi, tragitti, avventure, vicende, episodi di anni a bordo di questo affascinante salotto viaggiante.
Con questa ulteriore iniziativa continua un fase positiva di questa manifestazione, che mi ha dato tantissime gratificazioni, e la possibilità di conoscere tanti appassionati di questo modello.
Gianni Marchetti
“La Déesse Particulière” Ho dato vita a questo terzo progetto sulla Citroën Déesse dopo dieci anni dal primo “Pallas”. In tutto questo tempo passato al fianco di amanti di questa magnifica automobile, pur non possedendone una, mi sono reso conto del legame che unisce i proprietari alle auto. Mi sono accorto di come le guardano, di come le osservano.
Nel primo volume avevo rappresentato nelle immagini quello che un appassionato vedeva osservando la propria auto: una opera d’arte.
In questo libro ho presentato una serie di immagini dove il punto di vista è diverso, sono immagini con una prospettiva più ravvicinata, con solo una piccola parte dell’oggetto messa a fuoco e tutto il resto dell’immagine sfuocata. Nel dare vita a questo progetto, ho pensato al momento in cui ci si avvicina alla parte che attira la nostra attenzione e gradatamente fa cadere il nostro occhio su un punto focale ben preciso, lasciando tutto il resto in un piano secondario. Nel momento in cui si osserva questo oggetto da vicino, i nostri pensieri divagano e si concentrano sull’oggetto, lasciando intorno una sorta di fantastico; così nello stesso modo ho voluto sfuocare il piano anteriore e quello posteriore, per dare un senso di fantastico, di sospeso, un senso di sogno, che è quello che io vedo negli occhi di ogni possessore di una Déesse.
Cesare Di Liborio
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